Le imprese sono chiamate a uno sforzo eccezionale per garantire il successo della trasformazione.
In greco antico “crisi” vuol dire “scelta”. Nell’alternativa c’è il senso più profondo e dinamico della crisi. Quante volte si sente dire: “Bisogna saper cogliere questa crisi come occasione di…” e poi si aggiunga a piacere: cambiamento (il vocabolo più gettonato), miglioramento, crescita, ripresa, riscatto ecc.
Come ha evidenziato Filippo Delle Piane nella sua relazione, vi è consenso unanime relativamente all’affermazione che, quando usciremo dalla terribile crisi in cui ci troviamo, tutto sarà diverso, il mercato di riferimento, la politica, forse anche la struttura sociale del nostro continente.
Ma non tutti concordano sul fatto che in un tale contesto anche il nostro modello di business e il nostro modo di fare associazione non possano essere esenti.
Questa visione, però, è miope perché, anche per le imprese è arrivato il momento di fare una seria e severa analisi al proprio interno e attuare quel cambiamento, faticoso ma imprescindibile, che porti alla scelta di un nuovo modello di business compatibile con il mondo globalizzato in costante cambiamento.
Come ha affermato il Governatore della Banca d’Italia nella sua ultima relazione: “Le imprese sono chiamate a uno sforzo eccezionale per garantire il successo della trasformazione, investendo risorse proprie, aprendosi alle opportunità di crescita, adeguando la struttura societaria e i modelli organizzativi, puntando sull’innovazione, sulla capacità di essere presenti sui mercati più dinamici.
Hanno mostrato di saperlo fare in altri momenti della nostra storia. Alcune lo stanno facendo. Troppo poche hanno però accettato fino in fondo questa sfida; a volte si preferisce, illusoriamente, invocare come soluzione il sostegno pubblico.”
Le imprese del nostro settore alcune volte hanno peccato di lungimiranza: spesso non hanno fatto lo sforzo di conseguire dimensioni maggiori (anche se il mercato stava andando in quella direzione), non hanno sfidato sé stesse cercando commesse all’estero per differenziare e non per sopravvivere. Sono poco capitalizzate rispetto alla media tedesca o anglosassone, si sono dotate di strumenti di pianificazione finanziaria spesso carenti e approssimativi, hanno preferito mantenere una struttura familiare anziché manageriale, hanno fatto ricorso quasi esclusivamente al credito bancario ignorando altre forme di finanziamento.
Spesso, il motivo di tale impostazione di business risiede nel fatto che le nostre imprese sono riluttanti ad aprirsi: la crescita dimensionale e l’accesso ai mercati, comportano oneri in relazione alla maggiore visibilità agli occhi del fisco, delle autorità di controllo, degli azionisti di minoranza, in presenza di un carico impositivo eccessivamente gravoso, di norme amministrative pletoriche applicate con inefficienza, di scarsa flessibilità dei mercati dei beni e del lavoro.
Sto ovviamente generalizzando: non ignoro certo che tra i costruttori vi siano anche aziende moderne, attente all’evoluzione del mercato, condotte con lungimiranza e attenzione.
E allora facciamo in modo che siano coloro che prima di altri hanno intrapreso un cammino virtuoso a indicarci il percorso non per sopravvivere ma per crescere e competere in un mercato in continua evoluzione!
di Francesca De Sanctis